Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito
Fantasima – di Giuseppe Esposito-
Era stato un amore travolgente, di quelli che non ti fanno dormire la notte e che ti accendono i sensi al solo pensiero della persona amata. Era stato, del resto, il primo amore della sua vita e sentiva, inconsciamente, che, comunque fossero andate le cose, Assunta sarebbe rimasta dentro di lui prototipo, emblema, essenza stessa dell’idea di donna. Con lei aveva, per la prima volta i turbamenti che una passione accesa può far correre nelle fibre tutte del corpo. Assunta era stata la scoperta, per lui della donna, del corpo femminile, oltre che del sentimento. La dolcezza immensa di un amore assoluto. Di quello cui ti abbandoni senza pensare ad altro. Quello che ti riempie ogni ora del giorno e della notte. Poi quello che sembrava dover durare per sempre era svanito. Gli era sfuggito tra le dita come sabbia, che non riesci a trattenere. Colpa sua, della sua irresolutezza e della sua mancanza di coraggio nel difendere quel suo sentimento, quella cosa, pur sapendola irripetibile. Quella fine lo aveva lasciato sbalordito, come tramortito ed incapace di riuscire a capire che potesse davvero essere finito.
Aveva conosciuto altre donne, si era poi sposato, ma dentro di sé, in un remoto angolo dell’anima, quell’amore continuava a vivere, fiamma sopita, ma inestinguibile. Una dolente ferita che mai si sarebbe rimarginata. Eppure quel dolore gli era caro, lo legava ad una felicità che, si diceva, non avrebbe mai più ritrovato.
Assunta era stata per lui un’epifania d’amore, un ricordo impresso a fuoco in fondo all’animo. Aveva poi appreso ch’ella s’era sposata ed aveva pensato che le loro strade non si sarebbero più incrociate. Non sapeva che la parola mai a questo mondo è una pura astrazione, una parola senza un vero significato. È il fato che governa, in realtà, le nostre vite. Ed i suoi fini sono imperscrutabili.
E ciò che pensava non potesse più accadere, accadde.
L’anno precedente era stato di quelli che si usa definire annus horribilis. In luglio s’era sposato, ma a novembre suo padre era morto in ospedale dopo un intervento banale. Una settimana appena dopo quella morte, c’era stato il terremoto che aveva provocato danni anche al palazzo in cui era andato da poco ad abitare.
Finalmente a marzo, la primavera aveva reso l’aria tiepida e dolce. Sua moglie, gli ultimi giorni del mese andò in clinica per il parto imminente. La clinica, sebbene fosse una delle migliori, mostrava ancora i segni delle ferite inflittegli dal sisma. Strutture di sostegno in qualche punto e larghe crepe sulle pareti sia all’esterno che negli ambienti interni. Un’ala dell’edificio era impraticabile e le stanze disponibili erano in numero ridotto. Capitò così che bisognò accontentarsi di una camera con ben quattro letti. Ma sua moglie era di carattere estroverso e dividere la stanza con altre partorienti non le pesava, anzi, avrebbe avuto modo di chiacchierare e vincere la noia delle lunghe giornate di degenza.
E accadde che il figlio emise il primo vagito proprio l’ultimo giorno del mese ed egli volle imporgli il nome di Nicola, quello di suo padre che aveva perso, per pochi mesi, l’occasione di vedere quel suo nipote, figlio di suo figlio.
Egli si recava a far visita alla moglie la sera, tornando dallo stabilimento, in cui era impiegato. Ma quel sabato poteva andare in clinica fin dal mattino. E non essendo Villa delle Querce lontana da casa sua, vi si avviò a piedi. Prima di entrare si attardò a osservare le impalcature su cui i muratori lavoravano per il ripristino dei danni del sisma. Varcò la soglia ed anche lì seguiva col naso all’aria la geografia delle crepe aperte negli intonaci. Infine spinse la porta della camera della moglie e mise il piede sulla soglia. Appena sua moglie lo vide, con tono scherzoso gli chiese:
“Oh, giusto tu, hai dormito bene stanotte?”
Poi visto il suo sguardo sorpreso, precisò:
“Invece tuo figlio ha deciso di non farci dormire. È stato sveglio tutta la notte e meno male che quella signora ha avuto la pazienza di cullarlo, in braccio per tanto tempo, altrimenti avrebbe svegliato tutta la clinica.”
Fu allora che egli lanciò uno sguardo al resto della stanza, nella direzione indicatagli dalla moglie.
Non l’avesse mai fatto. Un tuffo al cuore e la sensazione di essere risucchiato da un vortice temporale che lo riportò in un attimo a qualche anno addietro. Non credeva ai suoi occhi, Assunta era lì, all’altro capo della stanza, con un sorriso appena accennato su quelle labbra il cui sapore egli sentiva di nuovo sulle sue in quel momento. Sembrava che il tempo non fosse passato, ma egli avvertì un disagio profondo, temette che la moglie potesse immaginare il turbinio che gli era scatenato dentro. Mormorò una scusa a fior di labbra ed imboccò di nuovo la porta.
Passeggiò in cortile fino a quando non vide uscire Assunta. Gli passò accanto e gli sorrise con quel sorriso dolce che tante volte aveva indirizzato solo a lui.
Quando rientrò, la moglie, chiacchierando, gli disse, ad un certo punto:
“La sai una cosa? Quella signora che ha cullato nostro figlio stanotte, mi ha detto che anche lei ha un figlio. E sai come si chiama il bambino?”
La guardò con uno sguardo vago, non poteva certo sapere. E sua moglie allora completò:
“Nicola si chiama, come nostro figlio.”
Ancora oggi, dopo tanti anni ancora si chiede se davvero tutto questo accadde o se fu solo una sua immaginazione, un sogno, una fantasima.
