Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito
Quando Goethe s’innamorò di Napoli- di Giuseppe Esposito-
Secondo il nostro don Benedetto Croce, la definizione di Napoli come Paradiso abitato da diavoli, risale ad un periodo compreso tra il XVII ed il XVIII secolo. Il primo ad adoperare questa espressione fu, secondo Croce, il polacco Luca di Linda, nel suo “Descriptio orbis” del 1655. La si ritrova poi in una lettera di Bernardino Daniello, noto commentatore di Dante, che scrivendo ad Alessandro Corvino osservava come forse la natura per contrastare la bellezza dei luoghi avesse pensato di dare questo paradiso ad habitare a diavoli per non subire dagli ambasciatori degli altri luoghi l’accusa di non essere stata imparziale.
Addirittura nel 1707, dopo la conquista di Napoli da parte degli Austriaci, fu tenuta ad Altdorf, organizzata da un giovane doto tedesco, una conferenza per dimostrare, nei particolari, la verità del detto secondo cui il Regno di Napoli è un paradiso abitato da diavoli. Durante la conferenza il giovane dotto si riferiva ai luoghi con espressioni di meraviglia quali:
“O miserandam itaque Campaniae!” oppure “O stupendam Neapolis opulentiae!”, mentre agli abitanti riservava espressioni quali: “O turpissima flagitorum genera!” o ancora “O esecrandos pessimorum hominum animos! Ed ancora: “Neapolitanorum facinora”.
Tali impressioni riportate in numerose pubblicazioni dell’epoca contribuirono a diffondere la vulgata del Paradiso abitato da diavoli. E questa era la fama di Napoli quando nel 1787 vi giunse Goethe. Lo scrittore amico di Gaetano Filangieri fu ospitato nel palazzo Filangieri di Arianello, in via Atri. Lo scrittore confesserà poi di aver provato a Napoli le sensazioni più forti di tutto il suo viaggio in Italia. Ammira lo sfarzo artistico ed economico di una città ricca e florida, fraternizza con i suoi cittadini più illustri e confuta, grazie al suo sguardo immune da pregiudizi i luoghi comuni che affliggono, purtroppo, ancora oggi gli abitanti di questa terra. Il 28 maggio del 1877 così scriveva:
“L’ottimo e utilissimo Volkmann mi costringe, di tanto in tanto a divergere dalle sue opinioni. Dice per esempio che a Napoli vi sarebbero da trenta a quarantamila fannulloni: e quanti non lo ripetono!, Dopo aver acquisito qualche conoscenza delle condizioni di vita del Sud, non tardai a sospettare che il ritenere fannullone chiunque non si ammazzi di fatica da mane a sera fosse un criterio tipicamente nordico. Rivolsi perciò la mia attenzione preferibilmente al popolo, sia quando è in moto, sia quando sta fermo e vidi, bensì, molta gente mal vestita, ma nessuno inattivo.
Chiesi allora ad alcuni amici se veramente esisteva questa massa di oziosi, desiderando conoscerli io pure, ma nemmeno loro furono in grado di indicarmeli; sicché, coincidendo la mia indagine con la visita della città, mi misi sulle loro tracce.
Cominciai , in quell’immensa baraonda, a prendere familiarità con diversi tipi, a giudicarli e classificarli secondo il loro aspetto, le vesti, i comportamenti e le occupazioni. Questa ricerca mi riuscì più facile che altrove, perché qui l’uomo è più lasciato libero a se stesso e si denota esteriormente, in conformità alla sua condizione sociale.
Iniziai le mie osservazioni di buon mattino e, se vidi qua e là questa gente ferma oppure in riposo, fu perché il loro lavoro così esigeva in quel momento.
I facchini, che in diversi punti hanno i loro posti riservati, e attendono che qualcuno ricorra a loro. I vetturali che, con i loro servi e garzoni, accanto ai calessi a un cavallo governano le loro bestie, sulle grandi piazze, pronti ad accorrere al primo richiamo. I barcaioli che fumano la pipa seduti sul molo; i pescatori che se ne stanno sdraiati al sole perché magari il vento contrario non gli consente di uscire in mare. Ne vidi anche molti che andavano attorno, ma quasi tutti portavano il segno di una specifica attività. Quanto ai mendicanti, non se ne vedevano affatto, se non vecchioni, storpi o gente inabile a qualsiasi lavoro. Più mi guardavo intorno, più attentamente osservavo e meno riuscivo a trovare autentici fannulloni nel popolino minuto come nel medio ceto, sia al mattino, sia per la maggior parte del giorno, giovani vecchi, uomini o donne che fossero.
Citerò qualche particolare cos’ da rendere più credibile la mia affermazione.
In vari modi si danno da fare anche tutti i ragazzini.”
E qui lo scrittore cita alcuni mestieri in cui i ragazzi erano impiegati, come garzoni di pescivendoli, di falegnami, di venditori di acqua sulfurea o di angurie. Oltre a quelli che portavano via le immondizie, costituite in gran parte da torsoli di o foglie di broccoli, cavolfiori, carciofi verze e insalate, poiché la dieta dei napoletani era basata in gran parte sugli ortaggi e le verdure. Vi erano poi quelli che raccoglievano gli escrementi equini e li portavano nei campi, dove erano utilizzati come concime. Passa poi in esame l’infinità di piccoli commerci che si tenevano per le strade di Napoli e conclude infine dicendo:
È vero che non si fa praticamente un passo senza imbattersi in gente assai malvestita, ma non per questo si deve parlare di scioperati o perdigiorno. Sarei quasi tentato di affermare, per paradosso, che a Napoli, fatte le debite proporzioni, le classi basse sono le più industriose.
Un bel riconoscimento per i napoletani ed una decisa confutazione dell’ingiuriosa affermazione circa i diavoli che popolerebbero un paradiso.
