Il racconto della domenica di Giuseppe Esposito
La dissimulazione –
Aveva cominciato da ragazzo ad avvertire la necessità di mentire, o meglio l’impossibilità di essere sincero. Non di bugie si trattava ma di una interpretazione della realtà, fatta da un punto di vista diverso, forse particolare. Dal punto di vista di chi da una posizione obbiettiva di svantaggio si trovava a dover competere con quanti intorno a lui usavano il loro status di privilegiati, almeno ai suoi occhi, con una disinvoltura dovuta all’abitudine. In pratica, aveva notato che i ricchi sono talmente abituati ai loro privilegi da non rendersi neanche conto che non tutti possono goderne. Anzi hanno nei confronti di chi non sia nella loro stessa condizione un’attitudine simile a quella degli europei che andavano a colonizzare i paesi dell’Africa e dell’Asia, convinti della loro superiorità. Una superiorità per ottenere la quale non avevano fatto il benché minimo sforzo. Era una condizione ereditata dai loro maggiori, se non addirittura, secondo alcuni, un fatto genetico.
Questa presa di coscienza dell’impossibilità di essere sinceri completamente era avvenuta in G. con un notevole anticipo rispetto ai tempi d’oggi. Tempi che possiamo definire come l’era della rappresentazione. L’era cioè in cui l’apparenza conta più dell’essere, della sostanza delle cose. Oggi la concezione della vita come rappresentazione è generalizzata ed ha completamente stravolto qualunque gerarchia di valori. Anzi i valori e le idee sono stati cancellati come orpelli di un’epoca terminata ed un pò barocca perché osava dilettarsi con le idee se non addirittura talvolta con le utopie. Sembra che tutti oggi abbiano deciso di elevare la menzogna a regola di vita sebbene nessuno sia spinto dalla necessità. Tale atteggiamento contemporaneo ha creato una sorta di vuoto nella società. Un vuoto in cui tutti noi ci troviamo a galleggiare ed a fluttuare incapaci di una visione e di una prospettiva di vita.
Oggi viviamo tutti in un eterno presente, rinneghiamo il passato con le sue memorie e siamo incapaci di immaginare un futuro. G. cominciò ad osservare la realtà intorno a sé appena ebbe la consapevolezza del mondo. La scoperta della realtà avvenne già dai primi anni delle scuole elementari. Fino a quel momento non aveva mai avvertito nessuna differenza tra lui stesso ed i suoi compagni di gioco. Fino a quel momento la componente economica e sociale non era mai stata percepita, il ragazzo ignorava assolutamente quella dimensione. Poi cominciò a rendersi conto di come le stesse maestre ed in seguito i professori avessero comportamenti diversi in funzione del censo dei genitori dei loro allievi. Suo padre era un operaio e sua madre casalinga. Avevano deciso di compiere ogni sforzo per dare a quel loro figlio un’educazione migliore di quella che loro stessi avevano potuto ricevere. Erano gli anni cinquanta del secolo scorso e la società sebbene in via di trasformazione era ancora legata a quel mondo di stampo ottocentesco, sopravvissuto fino all’inizio del secondo conflitto mondiale. La società era quella dell’Italia liberale in cui le differenze tra le classi erano enormi ed era estremamente difficile scalare la piramide sociale. Il ragazzo era stato iscritto ad una scuola privata ed il sacrificio per pagare la retta era una sorta di guerra quotidiana, nel senso che occorreva centellinare sulle spese di ogni giorno per poter mettere da parte il necessario alla retta scolastica, mese dopo mese. La scuola cui fu iscritto era tenuta dalle suore e l’ambiente era notevolmente diverso da quello della scuola pubblica. Innanzitutto, già a quel tempo, era in vigore il tempo pieno, il full time, come oggi usa dire, per fare sfoggio dell’indispensabile inglese e rischiando anche di apparire ridicoli quando non lo si padroneggia alla perfezione. Ma questo riguarda appunto la filosofia dell’apparire di cui è permeata la società odierna.
Il conflitto tra la verità e la necessità di sopravvivere in un ambiente ostile apparve al nostro G., dunque, precocemente. I genitori dei suoi compagni di classe erano quasi tutti professionisti o commercianti. Nel secondo caso il denaro suppliva al lustro della professione. Fu dunque in quel tempo che G. imparò a costruire ad uso di quanti gli erano attorno una realtà immaginaria da propinare in luogo di quella vera. Certo talvolta si verificavano incidenti di percorso, come quando in prima media capitò in classe sua un certo Alfano che abitava nel vicolo parallelo al Vico Secondo S. Maria Avvocata a Foria. La famiglia di Alfano abitava al terzo piano di un palazzo e le finestre dell’appartamento affacciavano giusto in corrispondenza del basso in cui la nonna di G. aveva la sua rivendita di carbone, nel basso stesso che fungeva anche da abitazione. Alfano era fortunatamente alquanto negato per gli studi, era anzi un vero somaro, pertanto G. ebbe buon gioco a zittirlo quando quello cominciò a dire che lui lo conosceva già da prima che si incontrassero a scuola, che lui lo aveva visto, era il nipote di Nannina che vendeva il carbone nel vicolo sotto casa sua.
Da quella volta in poi G. divenne sempre più prudente, nell’escogitare le sue storie e nel rappresentare la propria realtà, diremmo oggi, virtuale. Si informava prima sulla possibilità che qualcuno potesse smentirlo e divenne sempre più abile nel confezionare le sue storie. Arrivava talvolta a credere lui stesso in ciò che inventava e raccontava agli altri, si immedesimava nel suo ruolo come un attore che studia la parte sul copione e cerca di entrare nello spirito del personaggio.
Certo talvolta era costretto ad azzardati giochi di equilibrio. Certo, occorreva evitare commistioni tra la cerchia dei compagni di classe e quella del quartiere dove abitava. Ma mano a mano che andava avanti si abituava sempre più a vivere in bilico tra due diversi mondi. Era un anticipatore della modernità, un millantatore per necessità o, più semplicemente uno che interpretava un ruolo scelto da lui in questa vita in cui spesso non è dato scegliere. La necessità, almeno era questa la giustificazione che adduceva a sé stesso e, francamente, non ce la sentiamo di dissentire. Partire dal basso è certamente molto più faticoso che partire da un livello sociale più elevato. Certi traguardi sono preclusi a chi non appartiene a una determinata cerchia.
Il tempo non ha mai smentito questo assunto, anzi gli ha dato sempre più forza fino a farlo diventare una principio universalmente accettato. In quale ambiente professionale sono ammessi gli outsider? La meritocrazia così spesso sulla bocca di tanti politici non ha mai avuto una reale applicazione, ma si è sempre cambiato tutto per lasciare le cose immutate nella loro sostanza. Naturalmente vivere una doppia vita non è da tutti occorre fantasia ed abilità, in pratica possiamo affermare che la dissimulazione sia un’arte e che per praticarla occorrono discrete doti di inventiva e anche disponibilità al sacrificio. Il primo capolavoro di G. risale al tempo del servizio militare.
Quando si avvicinò il tempo della partenza per il servizio di leva suo padre riuscì ad ottenere da un uomo politico, per il quale lavorava, una raccomandazione per poter accedere al corso per allievi ufficiali. Nonostante avesse partecipato, a suo tempo, al relativo concorso, non aveva più avuto nessun riscontro e, dopo la laurea, rischiava di finire in una qualunque caserma del paese a fare il soldato semplice. La raccomandazione permise il suo ripescaggio e la sua assegnazione alla Scuola di Artiglieria di Bracciano. Tale sede molto vicina a Roma era il rifugio preferito dei figli di quella borghesia costituita da alti ufficiali, alti papaveri ministeriali e professionisti legati al business del cinema. Era pertanto un ambiente molto esclusivo ed alquanto snob. Una prova difficile per G. ma una scommessa cui non poteva sottrarsi.
Era la cartina di tornasole delle possibilità di applicazione del suo metodo che potremmo definire metodo Stanislavskij di approccio alla vita. La prima verifica su larga scala ed in un ambiente completamente nuovo. Un test che poteva dare indicazioni importanti sugli obbiettivi che lo stesso G. poteva darsi per il futuro. Una volta sicuro di quella destinazione G. preparò la sua partenza facendo ricorso ad alcuni elementi, per così dire, di scena. Prelevò dal vasto armamentario del superfluo che si era accumulato nella casa del suo sponsor politico, un borsone Louis Vuitton, delle pantofole Dior ed alcuni altri, pochi, oggetti d’effetto che mescolò ai propri effetti personali. Una volta giunto a destinazione trascorse il primo mese a scrutare la fauna umana colà convogliata ed i rapporti che si andavano allacciando tra i coscritti. Mantenne un basso profilo per tutto quel primo lasso di tempo e prese le misure all’ambiente. Individuò i colleghi attraverso i quali avrebbe potuto veicolare la sua personale narrazione di sé e li abbordò. Erano quelli che avevano un maggior ascendente sugli altri e che avevano un concetto di sé stessi così alto da non perdere tempo ad osservare con attenzione la realtà di quanti gli erano attorno. Erano pieni di sé e quindi miopi rispetto al mondo circostante cui prestavano un’attenzione molto blanda, sicuri com’erano, che quello fosse al loro servizio.
Il successo di G. fu pieno ed andò oltre ogni più rosea previsione. Era riuscito a creare intorno a sé un alone di mistero, riempito di rapidi flash che lasciavano intravedere la sua realtà virtuale, fatta di ascendenze altolocate e di denaro. Quanto a lui aveva disegnato il ruolo del tipo un po’ snob che tiene in non cale tutto il suo mondo alto borghese. Il tipo di intellettuale degagé, vagamente dannunziano. Ovviamente in una versione adattata ai tempi. La rappresentazione ebbe molta presa sul suo pubblico inconsapevole ed a fine corso si trovò catapultato al secondo posto nella graduatoria generale composta da più di duecento nominativi, grazie all’impressione fatta sui membri del comando.
Alla fine del corso scelse di restare sul luogo e di replicare per la restante parte del servizio di leva la sua commedia. Quando giunse il momento del congedo ebbe l’onore di ricevere da tutta la batteria, fatta schierare dal suo comandante, il saluto finale, condito dal discorso dello stesso comandante che ebbe parole di elogio per l’intelligenza e la competenza del sottotenente G. Quando tornò a casa il nostro eroe aveva portato a termine una sperimentazione che aveva perfezionato in ogni suo aspetto il metodo di ingaggio necessario per scalare la vita e rompere lo steccato in cui la sua condizione sociale minacciava di relegarlo. L’applicazione del suo sistema gli permise di ottenere risultati molto apprezzabili.
Tuttavia verso la fine della sua avventura, la fragilità delle basi su cui l’edificio era stato innalzato, determinarono un crollo che riportò G. a condurre una vita alla cui mediocrità non riusciva più a rassegnarsi. Purtroppo era avvenuto che la scomparsa di un personaggio cui doveva molto lo privò del necessario appoggio nel momento in cui anche la risorsa temporale cominciava a scarseggiare. Quella sua vita costruita sull’invenzione aveva avuto dei momenti di crisi da cui era sempre riuscito a riprendersi. Alla fine però l’elemento più prezioso ed indipendente dalla sua creatività, cioè il tempo, andava esaurendosi. Così G. dopo essersi sentito nei panni del Conte di Montecristo o di un moderno Cagliostro stentava ad accettarsi per quel che era.
Il tempo che gli restava non era più sufficiente per rimettere in scena la sua rappresentazione. Ciononostante continuò a rincorrere fino alla fine il suo riscatto, il suo protervo desiderio di affrancarsi dalla realtà. Giunse quella che inesorabilmente livella tutte le esistenze ed impose anche a lui di calare il sipario sullo spettacolo. Il pubblico non si accorse della sua scomparsa, anche perché si può affermare che per i più lui non era mai esistito. Al suo posto avevano avuto vita effimera le molteplici maschere dietro le quali aveva dissimulato la sua vera essenza.