Vita: v’è mai, forse, un tempo dei bilanci?

Forse perché della fatal quiete

Tu sei l’imago, a me sì cara vieni

O sera! E quando ti corteggian liete

Le nubi estive ei zeffiri sereni,

 

E quando dal nevoso aere inquiete

Tenebre e lunghe all’universo meni,

Sempre scendi invocata e le secrete

Vie del mio cor soavemente tieni

E ti capita poi di posare ancora lo sguardo su questi versi del Foscolo e risenti allora l’odore dei quaderni di scuola, della polvere dei banchi di legno e rivedi, nell’aria di quell’aula di vicolo Minutoli, trafitta da un raggio meridiano di sole, danzare il pulviscolo dorato. Ti ricordi l’emozione che quei versi ti davano in quel tempo e la paragoni a quella di oggi affatto diversa… sarà forse, ti dici, perché la sera è ormai giunta anche per te. E non sarà, poi,  forse tempo di bilanci? Ma un dubbio ti assale repentinamente: si fanno mai i bilanci di una vita? Ognuno di noi, credo, li eviti, poiché essi nella maggior parte dei casi sono dolorosi e perché ognuno aborre il riportare nelle colonne di una propria partita doppia il dare e l’avere. Un bilancio può essere indolore in età giovanile, ma allo stesso tempo è anche inutile, negli anni in cui ancora si confida nel futuro e si sa che il futuro non è previsto nei libri mastri, non può essere contabilizzato. Anche perché, spesso, esso non reca agli individui ciò che era nelle loro aspettative.

In età matura a cosa serve un bilancio? Il più è già accaduto e non si può ormai modificare. Dunque ci sarebbe da concludere che mai appare necessario fare un bilancio. Eppure in alcuni momenti, sotto la spinta di un’emozione oppure, per reagire alla sensazione di vuoto che spesso ci assale, e convincerci che, in fondo, si è vissuto, siamo spinti a riconsiderare tutto quanto ci ha portato alla condizione cui siamo, in quel momento, confrontati, alla stagione del nostro scontento. Rimetti in fila i ricordi, i volti, le decisioni prese e ti chiedi se avesse potuto andare diversamente. Ma è una domanda, come suol dirsi, retorica oppure assolutamente priva di risposta. Essa, per i credenti, è in mente Dei. Allora la domanda che si affaccia successivamente al nostro animo è ancor più ardua: quale è il senso della nostra vita? O meglio, ci chiediamo se la nostra particolare vita abbia avuto un senso.

Ci verrebbe da dire che non v’è senso in essa e che non valeva la pena che fosse vissuta. Anche perché se ti azzardi a trarre le somme il risultato è una perdita secca, un deficit di bilancio, direbbe un economista. Ma potrebbe essere diverso? In fondo la vita è una continua perdita. Sin dal primo momento si comincia a cedere qualcosa, a perderla. Non siamo davvero padroni di nulla e se crediamo ci sia stato un momento in cui abbiamo creduto di essere appagati o, addirittura, felici, ci rendiamo conto che ciò è accaduto solo perché a quella apparente felicità si accoppiava una sorta di incoscienza. Una dimenticanza di noi stessi e della precarietà di fondo delle cose.

Non per nulla già duemila anni fa Orazio ci invitava a godere dell’attimo fuggente, col suo “Carpe diem”. E la vita infatti è tutta lì, in quegli attimi fuggenti che ci trattengono, spesso sull’orlo della disperazione. Godi l’attimo e non pensare, questa è la giusta rotta per vivere. Di fronte a una simile prospettiva ci abbandoniamo talvolta all’onda del destino e ci lasciamo trasportare da quella smemoratezza che è l’essenza stessa di quella che chiamiamo felicità. Ma è quello, nella gran parte delle volte, uno stato di breve durata, una sorta di assopimento da cui la vita si incarica poi di venirci a svegliare. E da svegli proseguiamo il cammino, ma senza una meta precisa, ci lasciamo vivere. E talvolta ci sovviene che, in realtà, una meta esiste ed è uguale per tutti: il nulla a cui prima o poi torneremo. E accade che ci rifugiamo allora nella fede che ci promette un’altra vita oltre questa nostra terrena ed il sogno ci seduce e ci conquista. Ma sarà poi in questo la nostra salvezza o non si tratta ancora di una voluta dimenticanza o forse di una scommessa?

Superato quel limite nessuno torna indietro. Nessuno lo ha mai fatto, se non Colui che è l’essenza stessa della fede, secondo quanto ci inducono a credere, ma giunti a questo punto oscilliamo tra i due corni dell’antica fiamma, come direbbe padre Dante: la fede o la ragione? Tutto intanto muta intorno a noi, ogni cosa che ci fu cara scompare e ci ritroviamo soli davanti a quella soglia estrema. E siamo soli. Quella soglia che, spesso, stanchi dei nostri dubbi ci appare agognata poiché ci lascia intravedere oltre il suo limine una pace da sempre sognata e mai raggiunta.

Ci sentiamo sempre più soli e giunti al momento di varcare quella soglia lo saremo nel modo più assoluto mai provato prima. Allora ci aggrappiamo disperatamente alla speranza che oltre il limitare qualcosa ci sia davvero e che le promesse di un’altra vita non siano, appunto, nient’altro che promesse. La paura ci spinge, forse, a respingere quello che la ragione ci ha sempre suggerito e desideriamo, ardentemente, credere. Poi…

Vagar mi fai co’ miei pensier

Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge

Questo reo tempo e van con lui le torme

 

Delle cure, onde meco egli si strugge;

E mentre io guardo la tua pace, dorme

Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Poi t’accorgi che altri hanno già affrontato quei dubbi e quei timori e ne hanno lasciato traccia indelebile. Ma questo non ci consola e sai che dell’estensore di queste incerte note, cosa resterà? Nulla, di certo…

 

Giuseppe Esposito