Persistenza della memoria: in ricordo di Greta Garbo

30 anni fa moriva a New York una delle più straordinarie muse cinematografiche della storia- di Francesco Fiorillo-

 Il Cinema è l’arte di dare forma ai sogni, e in quanto tale, vive di immagini iconiche. Le celebrità che prestano i loro volti e corpi ai personaggi sullo schermo sono di fatto esseri immortali: divinità senza tempo, in grado di emozionarci anche dopo decine di anni. E poco importa se il loro cuore umano cessa di battere: la loro leggenda gli sopravviverà.

Non è un caso che Greta Garbo fosse soprannominata “la Divina”: una delle primissime star dello schermo internazionale, incarnava in sé tutte le qualità di una dea destinata ad essere ricordata per sempre. Affascinante, enigmatica, eterea eppure sensuale: una “fata severa” come la definì Federico Fellini, in grado di convogliare un’incredibile gamma di emozioni con impercettibili movimenti degli occhi e delle labbra. Uno sguardo misterioso che nascondeva un universo, come la Monna Lisa di Leonardo Da Vinci.

Lo scorso anno, il suo bellissimo volto è stato scelto come immagine ufficiale per la locandina della Festa del Cinema di Roma: quale foto migliore per evocare la magia della Settima Arte se non quella tratta da Il bacio di Jacques Feyder? La Garbo riflessa in uno specchio, gli occhi obliqui e maliziosi, un accenno di sorriso sul volto pallido: una sfinge, consapevole della sua bellezza, custode di segreti indecifrabili.

È incredibile pensare che, pur avendo contribuito così tanto all’immaginario  cinematografico, l’indimenticabile attrice ebbe una carriera molto breve. Lavorò infatti per circa vent’anni, ritirandosi a vita privata con meno di trenta film al suo attivo. Non ancora quarantenne, scomparve dalle scene, sfuggendo alle attenzioni degli ammiratori e dei giornalisti e alimentando il suo mito fino al giorno della sua morte, il 15 aprile del 1990.

La leggenda di Greta Garbo ebbe inizio a Stoccolma il 18 settembre del 1905, quando La Divina nacque nel quartiere popolare di Södermalm con il nome di Greta Lovisa Gustafsson. Cresciuta in una famiglia di umili origini, abbandonò la scuola a 15 anni per dedicarsi a lavori da commessa. Venne presto notata per la sua bellezza, e scelta come modella per pubblicità e brevi cortometraggi. Dopo aver ottenuto la sua prima parte in un film (Luffar-Petter del 1922), si decise ad iscriversi all’Accademia Regia di Stoccolma, dove studiò recitazione. Di lì a poco, venne chiamata per un provino dal regista Mauritz Stiller che, colpito dal suo talento, la volle per I cavalieri di Ekebù (1924).

Il film ebbe un discreto successo a Berlino, il che le consentì di ottenere una parte nella pellicola di Georg Wilhelm Pabst del 1925, La via senza gioia. La grande occasione per Greta però arrivò grazie all’incontro con Louis B. Mayer della Metro-Goldwyn-Mayer (una delle più grandi case cinematografiche del periodo), che la scritturò per Hollywood. Greta partì allora alla volta di New York, appena ventenne, senza conoscere una parola di inglese. Ma la barriera linguistica non fu un problema: bisogna ricordare che a quel tempo il cinema era muto, e l’espressività di Greta (che nel frattempo aveva cambiato il cognome in “Garbo”) compensava ampiamente l’assenza della voce.

Il successo fu immediato: pellicole come La donna divina (1928), La donna misteriosa (1928), Orchidea selvaggia (1929) e Donna che ama (1929) la resero a tutti gli effetti una star, specializzata in ruoli da amante sofferente o tentatrice. Il suo fascino androgino e la sua recitazione “per sottrazione” conquistarono il cuore e l’anima di milioni di spettatori. Con l’avvento del sonoro arrivò la rovina per molti attori della vecchia guardia (a causa di voci sgraziate o forti accenti), ma non per la Garbo, che esordì nel suo primo ruolo “parlato” nel 1930 con Anna Christie. I rotocalchi dell’epoca titolarono entusiasti “Garbo talks” (la Garbo parla).

Seguirono altri successi, che la affermarono definitivamente come straordinaria diva: Grand Hotel (1932), Anna Karenina (1935) e soprattutto La regina Cristina (1933), che con l’inquadratura finale sul suo viso cementa la monumentale intensità della sua recitazione: un’espressione al tempo stesso fredda, malinconica e fiera.

Nella seconda metà degli anni trenta il sistema hollywoodiano entra in crisi: i successi al botteghino sono scarsi, nonostante i grandi investimenti e gli altissimi compensi. Ma la Garbo non è ancora finita: si ricicla con grande sorpresa nella commedia Ninotchka di Ernst Lubitsch (1939), dove interpreta per la prima volta un ruolo comico, confermandosi un’attrice poliedrica; stavolta i rotocalchi titolarono “Garbo laughs” (la Garbo ride).

Con l’avvento della Seconda guerra mondiale e il flop della sua seconda commedia, Non tradirmi con me (1941), la carriera della Divina ebbe una battuta d’arresto. Acquistò una casa a Manhattan, e lì si trasferì, abbandonando per sempre il mondo del Cinema. Registi e produttori continuarono a corteggiarla (nel 1949 le venne proposto il ruolo della ex diva del muto Norma Desmond in Viale del Tramonto, ruolo che poi andò a Gloria Swanson), ma lei non tornò mai a recitare. Lasciò dietro di sé la leggenda di una donna schiva, irraggiungibile, che non rilasciava interviste e non rispondeva alle lettere dei fan, non partecipava alle anteprime dei suoi film e non firmava autografi.

Poco o nulla mai si seppe della sua vita privata: della donna Greta Lovisa Gustafsson ci restano solo foto scattate di nascosto o di sfuggita; della diva Greta Garbo invece, ci rimane il mare profondo dei suoi occhi e l’enigma insondabile del suo volto, per sempre scolpiti nella memoria collettiva. Non saremo mai più graziati da un’attrice che, come lei, sapeva fondere in uno solo sguardo così tanto dolore e amore. Come scrisse il New York Times al tempo della sua morte: «nessuno sapeva soffrire come lei».

Francesco Fiorillo

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