“Train de vie”, il sorriso che sconfigge l’Olocausto
In occasione del Giorno della Memoria, ricordiamo un piccolo capolavoro ingiustamente sottovalutato- di Francesco Fiorillo-
Molti sono stati i film che nel corso della storia hanno affrontato il tema della Shoah: quasi sempre, l’approccio scelto è stato drammatico e spietato, un tentativo di ferire la sensibilità dello spettatore per renderlo pienamente cosciente dell’orrore dell’Olocausto.
Ma si tratta di un’arma a doppio taglio: se da una parte queste pellicole traumatiche riescono a lacerare l’anima, da un punto di vista squisitamente cinematografico-narrativo si intrappolano da sole in un genere che, in quanto tale, vive di cliché e archetipi fin troppo prevedibili. Il rischio è che questi lavori, anziché rendere onore alla Storia, finiscano per essere “esercizi di stile”, nei quali di volta in volta si sono cimentati grandi autori (Spielberg con Schindler’s List, Polanski con Il pianista, e via dicendo). Al pari di un horror, queste pellicole turbano lo spettatore, senza necessariamente insegnargli qualcosa.
È davvero inevitabile che i film sul genocidio nazista siano così oscuri? Certo si tratta di un tema sconvolgente, ma per toccare la sensibilità non serve per forza spaventare o angosciare. Nel 1940, Charlie Chaplin fu il primo a capire che l’Olocausto poteva essere raccontato utilizzando gli strumenti della comicità: Il grande dittatore è un’opera imprescindibile in questo senso, e rappresenta probabilmente il tentativo più alto di dosare umorismo e coscienza storica. Ridere è naturale, ed è proprio questo il punto: l’atto liberatorio della risata ci rende simili, ci ricorda che siamo umani, compagni di viaggio che condividono lo stesso destino. E in questo modo, possiamo anche realizzare quanto spaventosa sia stata la sorte delle vittime dei campi di concentramento. Cinquant’anni più tardi, ritroviamo la stessa filosofia nello scaltro La vita è bella di Roberto Benigni; ma è un altro il film che vogliamo ricordare.
Train de vie – Un treno per vivere, è un lavoro davvero splendido. Uscito nei cinema nel 1998 (un anno dopo l’opera di Benigni), il lungometraggio di Radu Mihăileanu si ritrova a competere immediatamente con il film italiano, del quale è considerato il diretto concorrente. Ma la pellicola riesce a discostarsi dalla sua rivale affrontando sì il tema dell’Olocausto con ironia e umorismo, ma anche con delicatezza e leggerezza. Senza essere una pellicola provocatoria come quella italiana, Train de vie sceglie la strada della poesia. Il risultato è una favola che cambia continuamente registro: ora romantica, ora esistenzialista, ora allegra. Ma sempre struggente.
L’idea è geniale: quando gli abitanti di uno shtetl, un insediamento ebraico dell’ Europa dell’Est si rendono conto che l’ombra dei nazisti incombe sul loro villaggio, decidono di fuggire a bordo di un treno, fingendosi dei deportati. Per realizzare il loro piano, si dividono in due gruppi: alcuni di loro (quelli che parlano il tedesco senza inflessioni) interpreteranno la parte dei soldati aguzzini (con tanto di finte uniformi); gli altri saranno i prigionieri. Ma il treno non è diretto verso un campo di concentramento, bensì verso la libertà: la Palestina, passando attraverso l’Unione Sovietica.
Durante il viaggio, emergeranno tutte le tensioni ideologiche e religiose della comunità, esasperate dalla divisione fra “carcerieri” e “deportati”; i due gruppi, infatti, prenderanno troppo sul serio i loro ruoli, dando vita a dissidi e scene surreali (meravigliosa quella in cui tutti i passeggeri del treno si fermano a pregare, con i finti nazisti che si inchinano alle parole del rabbino al fianco dei prigionieri ebrei). La situazione diventerà ancora più folle quando si unirà al convoglio una carovana di zingari che ha avuto la stessa idea. Fra contrattempi e posti di blocco, la variegata compagnia riuscirà contro ogni pronostico a raggiungere la meta desiderata…ma il finale amarissimo ci rivelerà che l’intera storia è una fantasia dello scemo del villaggio, il dolce Shlomo (un eccezionale Lionel Abelanski) in realtà prigioniero in un lager.
Partendo dalla Shoah, il regista mette in scena una commedia tragica in cui l’ironia sferzante non risparmia nessuno: né i tedeschi, né i comunisti, né gli stessi ebrei. Tutti i personaggi sono accomunati dalle stesse debolezze e idiosincrasie, che si tratti di vittime o di carnefici. Tutti sono incurabilmente umani, e per questo fratelli.
Difficile dire cosa funzioni di più in questo piccolo gioiello: i dialoghi brillanti (curati nella versione italiana da Moni Ovada), le musiche coinvolgenti (ad opera di Goran Bregović, che attinge alla musica klezmer ebraica dell’Europa orientale), le interpretazioni sincere e commoventi (il già citato Lionel Abelanski, ma anche Jacques Narcy nel ruolo di Mordechai, il finto ufficiale nazista), tutti i tasselli si incastrano alla perfezione in un mosaico pieno di vita e di speranza.
Eppure, la critica del periodo non rese giustizia alla pellicola, che ebbe un tiepido successo: troppo ingombrante il paragone con La vita è bella. Il legame fra i due film è più stretto di quanto si pensi Radu Mihàileanu aveva proposto il ruolo di Abelanski proprio a Benigni), ma appare inutile confrontarli: entrambi sconfiggono l’orrore con il sorriso, solo in modo profondamente diverso. Train de vie lo fa delicatamente, come un vento leggero che attraversa il cuore, lasciando una dolce ferita. Una canzone tenera ma straziante, come quella cantata da Shlomo dietro il filo spinato, nella scena finale:
Shtetl, shtetl, shtetele non mi dimenticare,
Shtetl, sono partito un giorno in treno
per andare lontano,
Shtetl, shtetl, shtetele
per non incontrare gli occhi della gente.
Quello che mi tiene ancora in vita
è la sublime follia, è la sublime follia
il treno per vivere
