Il manifesto di Mario Giacomelli

Il 4 dicembre del 1953, 66 anni fa, nasceva a Senigallia il gruppo fotografico Misa.

Per mano di Giuseppe Cavalli questo piccolo gruppo di giovani si apprestava a tracciare un pezzo di storia della fotografia da cui ancora oggi possiamo trarre insegnamento.

In tempi di Instagram, Social e condivisione parlare di gruppo fotografico può sembrare fuori dal tempo.

Soprattutto perché oggi, la parola gruppo fotografico evoca gruppi di WhatsApp oppure gruppi di affezionati di instagram che non si conoscono ma che si ritrovano nello spazio virtuale della rete per condividere foto e scatti che li accomunano.

66 anni fa, invece, un gruppo fotografico indicava che ci ritrovava fisicamente in un bar, un circolo, una pizzeria e si discuteva di fotografia e ci si scambiava pareri, opinioni, stampe il tutto per amore del bello e dell’arte che accomuna tutti quelli che seguono le arti figurative.

Ve ne parlo oggi perché girovagando del web ho ritrovato il manifesto di Mario Giacomelli, uno tra i prinicpali fondatori di questo storico gruppo fotografico.

Per chi non lo conoscesse, stiamo parlando del più importante fotografo italiano conosciuto sul pianeta. Basti pensare che le sue foto sono state tra le prime di un italiano acquisite dal MoMa di New York e che alcune sue immagini hanno fatto da copertina ai più importanti cataloghi di collezione d’arte.

Stiamo parlando di una tra le più grandi eccellenze del panorama culturale del nostro paese.

Vi invito a leggere questo “manifesto” qualora siate interessati alla fotografia ma soprattutto perché, come potrete leggere fra le righe di questo breve testo, un’opera d’arte è il frutto di un pensiero e non è mai figlia dell’improvvisazione. Dietro c’è sempre qualcosa di importante su cui riflettere ed è questo che rende speciale un’opera d’arte.

“Per me che uso la macchina fotografica è interessante uscire dal piano orizzontale della realtà, avere la possibilità di un dialogo stimolante perché le immagini abbiano un respiro irripetibile.

Riscrivere le cose cambiando il segno, la conoscenza abituale dell’oggetto, dare alla fotografia una pulsazione emozionale tutta nuova.

Il linguaggio diventa traccia, necessità, spirito dove la forma si sprigiona non dall’esterno, ma dall’interno in un processo creativo.

Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con la realtà, per documentare l’interiorità, il dramma della vita.

Nelle mie foto vorrei che ci fosse una tensione tra luce e neri ripetuta fino a significare.

Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio.

Il linguaggio è così la coscienza espressiva interna che ha accarezzato la realtà pur rimanendo fuori, è l’attimo originale, testimone di una realtà tutta mia, un prelievo fatto sotto la pelle dell’oggetto, guidato fuori dalle regole per una libertà che è anche allargamento alle possibilità del reale. Mario Giacomelli”

Umberto Mancini

 

 

Umberto Mancini