L’opera di Robert Mapplethorpe fino al 9 aprile al Museo Madre di Napoli
Coreografia per una mostra si intitola la retrospettiva sul fotografo americano di recente inaugurata a Napoli
Parlare del lavoro di Mapplethorpe non è mai facile. È sicuramente una tra le figure più controverse non solo nell’arte fotografica, ma più in generale, nel campo dell’arte. È un artista verso il quale non esistono le mezze misure: o lo si ama o lo si odia profondamente.
Conosciuto soprattutto per le sue foto dedicate al corpo maschile, Mapplethorpe è anche un noto ritrattista di famose star di Hollywood e musicisti rock americani. Sue sono le foto di copertina di alcuni tra i più famosi dischi di Patti Smith per esempio.
Personalmente credo che sia un vero innovatore, uno dei primi a spostare l’attenzione sull’estetica del corpo maschile e lo ha fatto con uno stile personale e assolutamente riconoscibile e questo è tra le cose più difficili da ottenere per ogni fotografo. Lui ci è riuscito e ogni suo scatto, ogni sua fotografia, la si riconosce tra mille, senza aver bisogno di leggere alcuna didascalia, anche quando fotografa (quasi ossessivamente) gli stessi soggetti e gli stessi oggetti. Già solo per questo motivo vi consiglio di vedere questa retrospettiva che raccoglie gli scatti più celebri e iconici di questo grande artista.
Il vero problema di questa mostra è nell’allestimento che risente, purtroppo, di una illuminazione poco adatta a questo tipo di esposizione. Gli allestitori hanno potuto fare ben poco senza poter intervenire in modo radicale sulla struttura delle luci di sala, considerando che si tratta sì di una mostra importante ma pur sempre temporanea. Forse avrebbe aiutato non poco l’utilizzo di vetri antiriflesso nelle cornici utilizzate per esporre le foto, valorizzando ulteriormente le immagini di questo artista che hanno la loro ragion d’essere proprio nei contrasti tra i bianchi e i neri e che a causa dell’illuminazione vengono un po’ penalizzate.
Devo dire che un’altra piccola delusione l’ho avuta quando ho realizzato che sono presenti solo pochi scatti sul tema della danza a dispetto del titolo dell’esposizione, “Coreografia per una mostra”, che invece ne richiama esplicitamente l’idea. Incuriosito provo ad andare sul sito del Museo Madre nella speranza di leggere una spiegazione in grado di fugare le mia perplessità. In tutta sincerità devo dire che la lettura non è stata di grande aiuto. Insomma comunicazione e linguaggio utilizzati sono per un target sofisticato. Ma l’arte è un patrimonio di bellezza collettivo, che deve essere fruito da tutti. Un linguaggio troppo edotto diventa un linguaggio per pochi. Certo non è sempre facile esprimere concetti complessi e ricchi di riferimenti culturali con una forma espressiva semplice e alla portata di molti, ma questo è il compito dei divulgatori, altrimenti si rischia di escludere qualcuno.
Tornando alla questione iniziale, dunque, la danza e la coreografia sono poco rappresentate se non attraverso i pochi scatti sul tema e un piccolo camerino allestito strategicamente per spingere i visitatori a scattare qualche selfie e pubblicizzare indirettamente la mostra.
Comunque queste perplessità sono probabilmente solo mie. Chi visita la mostra per la prima volta e conosce poco l’opera di questo grande fotografo ne rimarrà comunque soddisfatto e compiaciuto.
In molte sale le opere sono affiancate a sculture e dipinti di altri autori. È una interessante soluzione, che esalta ancora di più l’opera di Mapplethorpe, e si basa sull’esercizio del confronto tra corpi scolpiti nel marmo (o dipinti su tela,) qualche centinaio di anni prima e la “visione” presente degli scatti del fotografo americano. Quanta arte classica si ritrova nelle foto irriverenti e spinte (alcune addirittura oscene) nelle foto di Mapplethorpe, anche se questa chiave di lettura è piuttosto datata e nulla aggiunge a ciò che è già stato abbondantemente detto e scritto. I primi testi a riguardo sono del 1977 di Germano Celant.
Ovviamente per completezza , anche se fuori tema considerando sempre il termine “coreografia”, non potevano mancare gli scatti “proibiti”, relegati in una sala riservata dove è vietato l’ingresso ai minori.
A conclusione di queste mie considerazioni faccio due inviti: il primo è a tutti voi lettori del nostro giornale ad andare al Madre per godere di questa mostra, perché l’opera di Mapplethorpe, per quel che mi riguarda, non si discute. Il secondo invito, rivolto ai responsabili del Museo Madre, è quello di essere più pignoli nell’organizzazione di mostre importanti come questa di Mapplethorpe, perché il rischio che vengano penalizzate dalla poca attenzione a certi dettagli è dietro l’angolo.
Umberto Mancini