Intervista a Raffaele Cascone, voce storica di “Per Voi Giovani”, programma cult di Radio Rai
Scrivere di musica non significa scrivere solo di dischi, vecchi o nuovi che siano, e in questa rubrica non si parla solo di musica suonata, ma anche di musica raccontata e veicolata sotto forme diverse, come potrebbero essere le pagine di un libro o le parole dette davanti ad un microfono. Qualche settimana fa ho avuto l’onore ed il piacere di trascorrere un intero pomeriggio con un personaggio storico della radiofonia italiana, un autentico mito, Raffaele Cascone. Ho ascoltato le sue storie e i retroscena di un programma radiofonico, Per voi Giovani, che ha, musicalmente parlando, letteralmente svezzato una intera generazione di giovani che poi sono diventati grandi appassionati, Dj, critici e musicisti. Ovviamente quando la persona intervistata è una figura con una storia professionale tanto ricca e vissuta in un momento storico così particolare come gli anni ’60 e ’70 le domande hanno il solo scopo di dare il LA e tutto avviene spontaneamente, senza fatica. Oggi Raffaele Cascone, psicologo e psicoterapeuta, è uno stimato professore che insegna all’Università di Palermo, ma la sua storia è ancora tutta lì, dentro i suoi ricordi e dentro le sue parole. Ecco cosa ci ha raccontato.
Come ci si sente ad essere immortalato in una canzone entrata nella storia? Io ho memoria solo di due casi, Bertoncelli nell’Avvelenata di Guccini e te in Venderò di Bennato.
Ad essere precisi sono due le canzoni che Edoardo mi ha dedicato, una è quella che hai citato, l’altra è Pronti a salpare (2015). Sono stato un testimonial al concerto di Bennato, il 12 di agosto scorso, organizzato da Maurizio Malabruzzi, e la prima cosa che ho detto sul palcoscenico è stato “vi rendete conto che qui abbiamo un nutrito pubblico di ventenni che stanno ad ascoltare un “vecchietto” di 73 anni e stanno per ascoltare un altro “vecchietto” di 70 anni che suonerà la musica di quaranta anni prima?”. Cosa significa? Che oggi si produce poca roba di qualità. Però onestamente io non ce la faccio più ad ascoltare cose di quaranta anni fa. Oggettivamente se nel 1957 mi avessero proposto musica del 1917 io avrei mandato tutti a quel paese. C’è qualcosa che non quadra.
Si però la musica di quaranta anni fa è quella che ha segnato un cambiamento importante, quella del 1917 non ha avuto le stesse conseguenze.
Effettivamente quaranta anni fa ci fu un momento d’oro, però se ci pensi tutti i momenti sono d’oro. Per chi all’epoca aveva 15/20 anni quelli sono stati anni d’oro per la musica. Tieni presente che noi ricordiamo con grande intensità e affetto tutto ciò che accade nel periodo della nostra vita che va dagli 8 ai 20/25 anni circa. Che ci fosse stato un periodo storico/culturale/artistico particolarmente favorevole sicuramente si. La mia testimonianza copre un arco temporale che parte dal 1953 circa fino al 1971 quando sono tornato in Italia dopo cinque anni in Inghilterra. Negli anni ‘50 ascoltavo le radio militari americane che trasmettevano in AM in tutta Europa. Ogni stazione radio trasmetteva delle cose per me interessantissime, soprattutto il bebop, il jazz e poi cominciarono a trasmettere il rhythm’n’blues e il rock. Nel ‘53/’54 avevo una cultura ormai americana della musica contemporanea. Il tutto in una città come Napoli che era una città di frontiera. È sempre stata una città di frontiera. Innanzitutto per questa famosa anomalia che è la musica napoletana, quella tradizionale. Napoli è stata un porto di mare e come tutti i porti c’erano influenze multiculturali, artistiche, umane ecc. A Napoli c’erano alcune zone come il quartiere Vomero, Posillipo, Manzoni, che erano i quartieri degli artisti, degli anticonformisti. Pensa che ad un certo punto della mia vita ho ricostruito che mia nonna, venuta a vivere al Vomero nel 1930, faceva parte di un’avanguardia artistica con la sua veletta e il suo scialle sulle spalle. Quelli che venivano ad abitare al Vomero “int e vruoccole” (“in mezzo ai broccoli” ndr) erano considerati degli spregiudicati. In quella Napoli c’era la natura (non dimentichiamo che il Vomero in quegli anni era la zona agricola della città dove venivano coltivati i broccoli), c’era una grande sensibilità e, in fondo, c’era anche una grande noia, un grande vuoto di stimoli. Immagina, negli anni cinquanta c’era solo la radio prima dell’avvento della televisione, tutto era rarefatto, e la musica si fruiva in casa attraverso la radio ed erano soprattutto le donne a beneficiarne, le quali cantavano ascoltando la radio. In altre parole era semplicemente la musica del quotidiano. In tutto questo c’era questa anomalia, questa infezione, a Napoli in particolare, della Base Americana che ci ha fatto vivere il fenomeno più straordinario del secolo scorso, dal punto di vista artistico, ossia la musica degli afro-americani. Il Jazz, il R’n’b, viene tutto da li, dalla mescolanza delle sensibilità artistiche portate dagli immigrati africani in America con la cultura musicale arcaica proveniente dall’Europa portata dai pellegrini e dagli emigranti francesi, inglesi scozzesi e italiani. Alla fine ti rendi conto che c’è un collegamento tra ritmo e corpo.
Mi stai dicendo che la musica ti fa stare bene grazie a questo collegamento?
C’è un collegamento diretto tra il ritmo e il corpo, che bypassano tutti i controlli corticali e civilizzati, e quando senti un ritmo sei portato a muoverti di conseguenza. Il ritmo è qualcosa che riguarda fondamentalmente il corpo arcaico. Dunque la musica ti fa stare bene perché mette in movimento il corpo al di là di tutte le sovrapposizioni e rigidità culturali e ti normalizza. In Africa il ballo non è una semplice rappresentazione ma è una pratica di normalizzazione del corpo. Addirittura, sempre in Africa, quando i giovani ballano in gruppo, gli anziani li osservano con attenzione e se è necessario li correggono nei movimenti. E qui entrano in gioco altre forme di contaminazioni tra anziani e giovani. Insomma il ballo è una forma di linguaggio molto articolato.
Io ti conosco da quando avevo 14 anni e ti seguivo alla radio. Per voi Giovani è stato il programma che ha introdotto alla cultura musicale tutta la generazione di adolescenti e giovani di quegli anni. Come sei arrivato a fare radio?
Anche io sono stato un grande ascoltatore di radio, ma sono stato anche un musicista (nel 1961 il mio gruppo si chiamava The Diamonds, il gruppo successivo fu I Battitori Selvaggi, e poi Willy & the International e poi il gruppo Risoluzione Movimentata). Quando sono stato in Inghilterra ero un forte ascoltatore di radio pirata. Io sono psicoterapeuta (un medico mancato perché non mi sono laureato in medicina ma sono laureato in psicologia), a Londra avevo uno studio di Psicoterapia Somatica (come si diceva allora) e quando rientro in Italia, in sei mesi non riesco a trovare un solo paziente. Ero a Roma e mi capita di curare un amico di un mio amico che aveva un disturbo che gli risolvo definitivamente con una terapia corporea. Dopo questo episodio il mio amico che studiava medicina e presso il quale ero ospite, lavorava anche in Rai. Quando decisi di rientrare in Inghilterra per riprendere a lavorare dopo sei sette mesi di inattività, questo mia amico mi chiese se me la sentivo di fare un provino in radio come presentatore di un programma. Il provino andò bene, anche se quando l’ho risentito era un vero disastro. Ci vollero 6/7 mesi di pratica per raggiungere un buon livello. Certo aver seguito le radio americane ed inglesi, oltre al fatto che ero uno studioso di comunicazione di massa, e conoscendo benissimo i temi sulla comunicazione trattati da Marshall McLuhan, ero in una posizione di vantaggio rispetto a quella che era la radio italiana di quegli anni. Ed allora per qualificarmi ulteriormente, se vuoi anche in maniera egoistica, e creare una mia professionalità ed originalità, feci una serie di operazioni mediatiche fatte bene, tra le quali creare il “Rock del Mediterraneo” e mettere l’uno vicino all’altro il “cafone” del Mississippi e il “cafone” nostrano.
Sicuramente una buona parte della scena rock napoletana di quegli anni ti deve molto.
Si, effettivamente mi sono dato molto da fare per valorizzare quella scena e quegli artisti. Per Napoli Centrale, ad esempio, ho fatto molto. L’idea di cantare in napoletano, per esempio, nacque una sera in cui avevamo bevuto, a casa di Alan Sorrenti nel periodo in cui anche lui abitava a Londra. Io presi una chitarra e iniziai a suonare un blues, ma la situazione era molto da italiani all’estero, sai di quelle cose che ad un certo punto, per nostalgia, perché ti manca la tua città, insomma cominciai a cantare in napoletano, versi del tipo “chisto è ‘o blues ‘e Cascone” e misi insieme diverse rime baciate, ma tutto rigorosamente in napoletano su quella base blues. Alan Sorrenti rimase molto colpito tant’è che me lo sono ritrovato anni dopo che cantava “Dicitencello vuje”.
In effetti Napoli Centrale è stata un’idea nata per caso quando incontrai Franco del Prete e James Senese, nel ’72/’73 non ricordo, a casa di Arturo Morfino, dal quale si erano recati per far ascoltare un loro nastro demo dopo che si erano sciolti gli Showman. In questo nastro c’erano delle atmosfere molto fluide ma anche piuttosto ermetiche, sembrava una sorta di musica new age, e su questa base una voce narrante (quella di Franco) recitava dei versi in prosa con un fortissimo accento napoletano… “il bracciante della campagna si reca al sorgere del primo sol a zappar la terra…” Insomma c’era chiaramente l’intenzione di fare qualcosa di nuovo, ma era solo un’intenzione e soprattutto così com’era cozzava totalmente con quello che erano loro. Allora ecco che viene fuori la mia funzione di mediatore artistico, e chiesi cosa volessero dire con quelle parole. Mi diedero delle spiegazioni parlando in dialetto napoletano e mentre lui parlava io scrivevo. Dopo venti minuti io avevo scritto tutto il testo della canzone Campagna. A quel punto mi sono rivolto a James e gli chiedo di cantare quello che avevo scritto, con la sua voce di nero. La prima reazione fu “ma come si canta in napoletano?” e io risposi “tu canta…” e cosi è nato il gruppo Napoli Centrale. Credo che ancora oggi non hanno capito realmente cosa fosse e quale potenziale avesse quel progetto. Il disco ha avuto un notevole successo e quindi ben presto arriva l’idea del secondo album. Ma non vengo interpellato né dal gruppo né dalla casa discografica. Devo dire che il potenziale della band non è stato mai realmente utilizzato, o meglio non l’anno saputo utilizzare. L’operazione Napoli Centrale doveva essere l’operazione tipica di valorizzazione di Napoli. La mia idea era: loro sono bravi, artisti con una enorme potenzialità, ma non sono articolati. Serve loro un’articolazione e gli serve un collegamento al gran mondo. Il gran mondo è li a portata di mano, a Positano dove c’era Shawn Pillips e alcuni suoi musicisti. Insomma questi personaggi avrebbero rappresentato il collegamento alla cultura internazionale. Ma Napoli Centrale e questi artisti stranieri non andavano assolutamente d’accordo. È stato un peccato perché se il primo album ha avuto successo era proprio per il sound, che era una sperimentazione, una fusion dal sapore già internazionale. E quella sperimentazione doveva andare avanti con ulteriori contaminazioni, ma questo si scontrava con l’atteggiamento autarchico dei napoletani.
E chi erano quelli ostativi e perché?
Tutti lo erano, i componenti del gruppo e anche la casa discografica. Erano ostativi perché questa operazione era vissuta da Napoli Centrale come un tradimento.
Alla luce delle cose che mi hai detto come spieghi il successo che i gruppi napoletani hanno avuto in quegli anni?
Gli anni settanta non sono stati anni unici per la creatività, era solo uno dei tanti periodi di particolare creatività. Il fatto che esistesse una trasmissione radiofonica che dava una visibilità ed una rappresentazione collettiva, accostando quei gruppi e quegli artisti a fenomeni molto più solidi ed internazionali, nella rappresentazione mediatica diede un’idea di movimento e di attività particolarmente vivace ai gruppi del sud, non solo di Napoli, vedi anche Franco Battiato che è di Catania, ma anche a molti cantautori del nord. Insomma iniziò una nuova musica, ma non perché quella musica prima non esistesse. Non esisteva il movimento, ma gli artisti erano già tutti lì sul mercato ognuno per proprio conto. Hanno goduto di una notorietà perché, con il mezzo radiofonico, ho creato un territorio comune che non c’era e che li diffondeva come se fossero un vero movimento artistico unitario. Naturalmente questa notorietà è stata costruita anche grazie ai festival politici di quegli anni, come i Festival dell’Unità e quelli di Lotta Continua a cui partecipavano. Tutto questo è durato fino al 31 luglio 1975, data nella quale terminò il mio rapporto con il programma. Da quel momento le case discografiche iniziarono a gestire gli artisti in modo autonomo. Il movimento unitario non c’era più, e non c’era più neanche quel filo conduttore artistico che in qualche modo li legava insieme.
Lo sai che molti ascoltatori quando è terminata la tua esperienza radiofonica si sono sentiti orfani?
Noi che facevamo quei programmi Rai eravamo tutti collaboratori esterni, e lavoravamo per parola di bocca, in pratica non avevamo un contratto. Dopo tre mesi dalla fine del periodo di lavoro la Rai ci mandava una lettera/contratto che noi firmavamo a posteriori. Pagati da fame tra l’altro. Nel 1975 ci fu la riforma RAI e senza entrare troppo in dettagli ed episodi piuttosto oscuri, diciamo che alcuni di noi non furono richiamati a fare programmi. Allora mi sono rivolto all’Associazione Stampa Romana a cui faccio presente che un centinaio di persone si trovano in una situazione complicata pur avendo collaborato a vario titolo in diverse trasmissioni e faccio presente che tutti hanno svolto un lavoro di tipo giornalistico mascherato d’altro. Per fartela breve feci leva sul fatto che avrebbero potuto seguire la nostra vertenza se ci avessero considerato giornalisti che hanno svolto il praticantato proprio durante il periodo di lavoro in Rai. Ora, considerando che l’Associazione accusava un certo calo di iscritti, con le necessarie procedure, ci sarebbero stati cento iscritti in più che ogni anno avrebbero versato quote di iscrizione, contributi e quant’altro. Alla fine la Rai riassume tutti tranne me, ma sotto minaccia di uno sciopero generale dei giornalisti alla fine anche io vengo assunto. Venni convocato dal direttore del personale e mi venne detto che, avendo capeggiato la rivolta, mi sarei dovuto scordare i programmi e mi propose di andare a lavorare al GR a Campobasso o al GR3 notturno. Ho scelto questa seconda proposta e mi faccio due anni cosi, passando da tre milioni di ascoltatori a circa ventimila. Ad un certo punto veniamo convocati per discutere l’ipotesi di una nuova trasmissione che attivi più ascoltatori. A qual punto mi faccio avanti e propongo una mia idea, intitolata Quotidiana Radio 3, una trasmissione che avrebbe trasmesso, dalle sei a mezzogiorno, notizie lette dai quotidiani alternate a musica e interventi degli ascoltatori sui temi trattati. La proposta viene approvata dal consiglio di amministrazione, ma la sera prima di andare in onda, mi dicono che non sarei stato io a condurre il programma perché avevo un forte accento napoletano. A quel punto mi mettono in aspettativa pagata per otto mesi. Dopo vari tentativi di salvaguardare la mia dignità personale e professionale, con diverse richieste di ricollocazione, rassegno le dimissioni. In fondo io nasco psicologo e psicoterapeuta, la radio era nata per caso. A quel punto due giorni dopo era già a San Francisco a fare altro.
Per chiudere questo bellissimo racconto che ci hai regalato. Che musica ascolti oggi?
Oggi c’è inflazione, una situazione opposta agli anni cinquanta durante i quali mi sono formato. Quindi la prima cosa da fare in un contesto dove c’è inflazione di segnali è quello di disintossicarsi da quei segnali. In altre parole staccare la spina per un certo tempo, cioè ascoltare poco e buono. Oggi riascolto con attenzione J.J.Cale e sto studiando a fondo Mark Knopfler, soprattutto da un punto di vista chitarristico e dal punto di vista delle armonie musicali. E naturalmente il Jazz e la Bossa nova. Da vecchio chitarrista ho scoperto che la mia tecnica ormai non c’è più, ma il mio orecchio percepisce cose che prima mi sfuggivano.
Nicola Olivieri