Le storie blues di Andrea Cubeddu
“Ciao Andrea, ho ascoltato il tuo disco e mi farebbe piacere intervistarti e sapere qualcosa di più di te e del tuo disco”. Questo, più o meno, è stato il mio approccio con Andrea Cubeddu. La risposta mi ha fatto subito capire con chi mi stavo interfacciando: “Scusa possiamo sentirci più tardi? Sono in un bus a Bologna guidato da un autista che crede di essere il fratello di Schumacher”. Quella risposta è stata per me più esplicativa di mille parole. Stavo dialogando con una persona giovane, spiritosa e gentile con la quale avrei avuto sicuramente di che parlare.
Andrea Cubeddu è un musicista sardo (della Barbagia) che dopo il liceo si trasferisce a Milano per migliorare la propria formazione musicale. Lui è un cantautore blues, anzi un vero bluesman, uno di quelli che vive il blues nella maniera più autentica e viscerale e lo suona con intensa passione, esibendosi con la sua chitarra e la sua voce ovunque possa farlo in Italia. Il disco, che arriva dopo un EP del 2016 intitolato On the street, è un omaggio al blues del Delta le cui sonorità hanno influenzato ed ispirato il nostro giovane artista (appena 24 anni) e si compone di 12 brani originali tutti scritti, suonati e cantati da Andrea Cubeddu.
Jumpin’ up and down non è un titolo qualsiasi ma una scelta pensata e ragionata. Si tratta di una citazione tratta dal brano Preachin’ Blues di Son House. È l’espressione che meglio di altre rappresenta quello stato di irrequietezza che evidentemente non è solo di Son House (predicatore battista e cantante/chitarrista il cui stile è stato particolarmente influente su molti musicisti blues) ma anche dello stesso Cubeddu mentre si esibisce e canta le sue storie, raccontate a volte con ironia (la stessa che ho potuto apprezzare personalmente) altre volte con malinconia, altre volte ancora con fervore. Perché quelle storie sono proprio le sue, quelle vissute in prima persona nello scorrere quotidiano della sua giornata e della sua vita. E quanto ci tenga Andrea ai suoi testi (oltre che alla musica ovviamente) lo si intuisce non solo da come li canta, ma anche dall’attenzione che è stata riservata alla custodia del disco, all’interno della quale si trova un booklet che li contiene tutti. Cosa rara ed encomiabile, sicuramente anche merito del supporto artistico di AZ Blues che quando sceglie gli artisti da seguire non sbaglia un colpo.
Jumpin’ up and down è un ottimo lavoro, suonato e cantato con passione, quella passione propria di chi “pensa” nel linguaggio del blues e vive in simbiosi con esso, di chi “sente” il blues scorrere nelle vene. E visto che l’appetito vien mangiando, mi permetto di dare ad Andrea ad un suggerimento. Nel prossimo disco, perché non inserire anche la traduzione dei testi? Le sue storie, così come le ha scritte, sono molto belle e meritano di essere apprezzate anche da chi non ha piena dimestichezza con la lingua del blues.
L’intervista
Ciao Andrea. Chi sei?
Sono un ragazzo del ’93, originario della Sardegna ma già da 4 anni residente a Milano. Faccio, o per lo meno cerco di fare, il cantautore: mi sposto in giro per l’Italia raccontando le mie storie, e vivendone di nuove.
Dalla Barbagia a Milano. Quanto è stato lungo questo viaggio e quanto è stato faticoso?
Il viaggio è stato abbastanza diretto. Dopo essermi diplomato al Liceo Classico G.Asproni di Nuoro, il mio maestro di musica dell’epoca mi consigliò di spostarmi a Milano, per approfondire la mia formazione musicale. Volevo coltivare questa passione, e sapevo che avrebbe significato lasciare il mio paese e la Sardegna. Certo, è stato un cambio drastico di abitudini, ma mi ha permesso di crescere, di diventare più responsabile e indipendente.
Come ti sei avvicinato al Blues e in particolare alle sonorità del Delta?
Ho scoperto il blues per caso. Quando iniziai a suonare, più o meno all’età di 12 anni, non avevo idea di cosa fosse il blues. Fu il mio primo maestro, Franco Persico, a darmi un’infarinatura generale. Per il primo saggio di musica preparammo una sempreverde “Sweet Home Chicago”, nella versione dei Blues Brothers, e mi fu dato il ruolo di chitarrista d’accompagnamento. Dopo questa esperienza, misi il blues da parte, era effettivamente troppo complesso da suonare, e mi cimentai nello studio di generi differenti. Poi, affinando le mie capacità da chitarrista, il blues riemerse prepotente. Conobbi Robert Johnson attraverso le registrazioni di Eric Clapton, e da qui tutto il mondo del Delta, e ne rimasi rapito. Niente mi lascia più esterrefatto che vedere Son House cantare “Death Letter Blues”. Quel brano, il modo in cui Son House canta e suona, mi ha cambiato la vita.
Tu sei un chitarrista e un cantante. Come ti sei formato tecnicamente?
Parte della mia formazione mi è stata impartita da una delle tante accademie per chitarristi di Milano. Ho appreso un buon metodo di studio, che utilizzo ancora adesso. Non ho però concluso gli studi. Questa accademia forma turnisti, e io volevo diventare un'”artista”: fare la mia musica, scrivere le mie canzoni e cantarle al mondo. La mia formazione tecnica sul blues non ha maestri diretti. Ho imparato sui dischi. Devo ringraziare anche la tecnologia moderna. Youtube mi da una mano ancora adesso: ci sono video di bluesman del passato che suonano i loro pezzi come se li avessi davanti, si può imparare molto guardando e imitando. Anche se il metodo migliore è sempre quello di andare a vedere i concerti dal vivo e farsi ispirare da musicisti che ci mettono l’anima nel far musica.
Quali artisti ti hanno ispirato?
Tutto il mondo del blues mi è di ispirazione. Ho iniziato con l’idea di mettere su una band e suonare blues alla Chicago. Quindi ho consumato dischi dei tre King, di T-Bone Walker, di Buddy Guy, e di artisti più recenti che vivono il blues in maniera trasversale, come John Mayer, Gary Clark Jr e Jack White. Poi, ho impattato con la realtà. Non trovando un gruppo e non potendo vivere nel limbo dei musicisti che studiano ma non suonano, mi sono buttato per le strada di Milano. I maestri che mi hanno aiutato a creare uno spettacolo che si reggesse da solo, in formazione da one man band, sono stati tanti. Robert Johnson, primo fra tutti, Son House e il suo allievo John Mooney, Muddy Waters e tanti altri. Infine, non meno importanti, i miei colleghi vivi e vegeti. Sia sardi che non, come i miei fratelli River of Gennargentu, Matteo Leone e BB Chris. La parte che preferisco del blues è la totale indipendenza dalle regole. Nessun tipo di restrizione tecnica. Nessun “se non fai così, fai schifo”. No. Solo “suona e raccontami le tue sventure, nel modo che preferisci”. Sarò giovane e con poca esperienza, ne sono consapevole, ma questo è tutto ciò che so di certo sul blues, e sulla musica. Suona, racconta, condividi e impara.
“Saltare su e giù” è la traduzione del titolo del tuo disco. Cosa significa, o meglio cosa ci vuoi dire?
“Jumpin’ up and down” significa smaniare, essere impaziente di fare un qualcosa. Sentii per la prima volta questa frase in un brano di Son House, “Preachin’ Blues”. Son House scatta una vivida fotografia del suo passato da prete battista, in cima al suo pulpito, nel pieno del sermone domenicale. Il prete “salta su e giù”, è smanioso, è infervorato dalla passione con cui parla del bene e del male, del Paradiso e dell’Inferno. Deve convincere il credente che, se agirà nel male, il Signore lo punirà, ma se si incamminerà sulla retta via, otterrà la pace eterna. Nel modo in cui canta e suona, Son House rapisce, e vuole rapire. Vuole portare il pubblico nel suo mondo, vuole lasciare un segno nell’anima delle persone che lo ascoltano. È ciò che questo artista mi ha trasmesso, mi ha insegnato indirettamente, attraverso le sue canzoni. Ed è ciò che faccio ogni volta che suono la mia musica. Il titolo del disco è un tributo a Son House, e identifica il mio modo di vivere la musica, di essere impaziente, sempre pieno di energie e determinato nell’intento di proseguire sul mio cammino.
Il disco mi è piaciuto molto, ma lo ritengo pensato per un pubblico esperto. Lo hai registrato in questa ottica o hai pensato anche a chi è ai primi approcci con il blues?
In verità non ho pensato al livello di preparazione del pubblico. Il linguaggio del blues è solo una scelta stilistica. Mi spiego meglio. La parte essenziale di ogni canzone è il testo, la storia che racconto. Le mie canzoni hanno un fine catartico: condividendo le mie esperienze, soprattutto quelle più negative, cerco di dimostrare che tutti combattiamo le stesse battaglie, tutti bene o male ogni tanto perdiamo, soffriamo e ci disperiamo. Ergo, in questo viaggio che è la vita, ci possiamo sentire meno soli se sappiamo di condividere gli stessi dolori. Il blues è il linguaggio perfetto per veicolare questo messaggio, è un genere carico di emotività, sia a livello tecnico che della storia che si porta alle spalle. A mio parere, chi vuole cimentarsi nell’ascolto di questo disco, deve solo essere disposto a farsi trasportare dalla musica, dal ritmo, dalle parole, a prescindere dal proprio livello di conoscenza musicale.
Ti impegna di più scrivere i testi o la musica?
La parte più impegnativa è sempre la scrittura dei testi. Scegliere le parole giuste, trovare modi di dire e metafore in inglese, parole che rimino tra di loro. La parte più difficile è essere originale anche quando prendo spunto dalla tradizione orale del blues: il blues è un linguaggio che veniva trasmesso e insegnato da musicista a musicista, non in forma scritta, in un contesto storico diverso da quello attuale. Per comporre brani convincenti ho studiato tanto il linguaggio del popolo afroamericano e della musica americana in generale, e poi l’ho contestualizzato ai nostri tempi. La musica invece viene da sè. Spesso mentre cammino per strada, o mentre sto improvvisando chitarra alla mano. Il mio telefono è pieno di registrazioni vocali di me che canticchio un tema, per poi trascriverlo appena ho lo strumento a disposizione.
Devo farti i complimenti anche per come è stato pensato e confezionato il CD. Bella grafica,
ma soprattutto particolare attenzione al booklet che contiene tutti i testi.
Ti ringrazio. È stato un duro lavoro di cooperazione con un’amica, Delia Carta. La grafica dell’album è stata concepita come connubio tra la realtà, esterna e oggettiva, di alcuni luoghi nella mia casa ad Orani , e la percezione, interna e soggettiva, degli stessi. Questi sono i luoghi dove spesso suono, mi esercito e compongo, dove ho trascorso la mia infanzia. Sono tanti i ricordi e le emozioni ad essi associati. Ho pensato quindi di disegnare sopra le foto di questi posti una sorta di spirito custode, l’incarnazione del blues, che veglia sui miei “luoghi sacri” e mi accompagna lungo il percorso che ho scelto di intraprendere. Ritenevo necessario produrre un primo disco nella maniera più professionale possibile, e il booklet era un dettaglio essenziale: penso che l’ascoltatore debba avere la possibilità di sapere di cosa parlano le mie canzoni, sia che abbia o non abbia una buona conoscenza dell’inglese, affinché l’aspetto cantautorale della mia musica non venga a mancare.
Quanto è stato complicato realizzare questo disco?
Tanto. Essendo il mio primo disco, non sapevo dove mettere le mani, e per la prima volta dopo tanto “arrangiarsi” ho chiesto aiuto a diverse persone, ognuna specializzata in un campo diverso, dal design alla fotografia, al recording, mastering e mixing. Dopo tanto lavoro sono davvero soddisfatto del risultato finale. Sono tante le anime da ringraziare, ed elencarle tutte sarebbe difficile. Posso solo rinnovare i miei ringraziamenti generali. Senza tanta cooperazione, il mio disco non sarebbe mai stato così “come lo volevo io”. Grazie a tutti.
I nostri lettori dove possono trovare il tuo disco?
Lo si può trovare in versione digitale sui classici digital stores (Amazon, iTunes e Google Play) mentre in forma fisica solo da me medesimo, quando suono per strada o nei locali, oppure, contattandomi attraverso facebook, posso spedirlo comodamente a casa. Spesso consiglio di dare un primo ascolto del disco su Spotify, e se si è interessati, acquistarlo in un secondo momento. L’aspetto che mi preme maggiormente è essere ascoltato e creare un seguito sempre maggiore, un pubblico interessato alla mia musica.
Per concludere dove suonerai prossimamente?
Un po’ ovunque. Sto cercando di essere il più “itinerante” possibile. Suono tanto per le strade delle città italiane che lo permettono, prima tra tutte Milano, e nei locali che hanno piacere di sentire un ragazzo suonare la vecchia musica del demonio. A tutti i lettori che potrebbero essere interessati alla mia musica, date un occhiata alla mia pagina Facebook. Lì pubblico tutti gli eventi a cui prendo parte, volta per volta. Grazie mille per l’intervista, un saluto a tutti i lettori della tua rubrica Sudigiri!
Grazie a te Andrea!
Nicola Olivieri